Il cavallo allo specchio
15/04/2018
Per continuare a fare ricerca sul comportamento animale in laboratorio, negli ultimi anni sono state introdotte delle espressioni soggettivanti nelle descrizioni degli esperimenti. Gli oggetti di studio non sono più un numero, ma vengono anche descritti dal punto di vista caratteriale. Viene dato loro un nome e un soggetto può venire quindi descritto come timido, aggressivo, collaborativo, e così via.
Aggettivi, ovviamente, messi in relazione al contesto della ricerca in sé. Starebbe quindi alla bravura del ricercatore la capacità di ricavare dati utili e consistenti da fonti variabili che vengono riconosciute (almeno a parole) come soggetti di una vita, e quindi molto e troppo passibili di variabilità
Chi fa ricerca in laboratorio da una parte dichiara la necessità di una ricerca anche in natura, su animali liberi, dall'altra dichiara la poca scientificità di questi studi, difendendo la ricerca in laboratorio come unica fonte ammissibile del sapere (umano) sul comportamento degli (altri) animali.
Da queste premesse nascono molte domande: può uno studio che ammette la soggettività definirsi ancora scientifico? In cosa consiste la bravura del ricercatore nel ricavare dati da fonti turbate dalla soggettività? E soprattutto, può un ricercatore che ammette la soggettività continuare a fare ricerca scientifica su animali che ha reso schiavi?
Ancora: la ricerca su animali liberi è sempre garanzia di riconoscimento della loro soggettività? Anche quando serve da premessa per uno studio in laboratorio?
È chiaramente un paradosso. Un paradosso che è stato introdotto per una finalità specifica, neanche troppo nascosta, che è quella di mostrare una finta evoluzione della ricerca, più accettabile agli occhi dell'opinione pubblica.
Così, sembrerà più accettabile per la comunità umana uno studio su nuove possibilità di modifica del comportamento di un cavallo, se viene detto che questo cavallo si chiama Eagle, che è timoroso e che ama distrarsi brucando l'erba. Poiché la fonte di guadagno di una ricerca sta nella sua possibile diffusione, è chiaro che edulcorandola è possibile farla passare per molte mani e molte bacheche.
E così che il discorso umano sugli altri animali può continuare in pace. Dal punto di vista di Eagle, ovviamente, nulla è cambiato, tranne che molti altri Eagle potranno essere oggetti di studio.
Lla foto, presa da un sito di divulgazione scientifica, è solo un esempio di questo paradosso di etica animale.
Un articolo su una ricerca a cura di Paolo Baragli sviluppata da un gruppo di ricercatori dell'università degli studi di Pisa nel 2017, che parte da un ossessivo e inquietante bisogno umano di catalogare le specie in base a come riusciamo a provare la loro auto-consapevolezza, utilizzando il vecchio metodo dello specchio introdotto nel paddock.
"In natura i cavalli vivono in branco e hanno bisogno di capire le differenze tra sé e gli altri per trovare la propria posizione sociale. Per questo Palagi e colleghi hanno scelto animali che vivono insieme, liberi di interagire tra loro in un grande paddock. Con cavalli che trascorrono la vita in un box, senza possibilità di comunicare davvero con i propri simili, questo risultato non sarebbe possibile."
Tutto molto bello, tranne che anche un paddock è un laboratorio se gli animali che ci vivono sono oggettivati.
Tutto molto bello, tranne poi che la ricerca è stata presentata al museo di Storia Naturale insieme al nuovo libro dello stesso ricercatore, intitolato "Cavalli allo specchio. Viaggio nella mente dei cavalli per conoscerli, addestrarli e gestirli in scuderia". Un titolo che, direi, parla da solo.
Prima di provare l'auto-consapevolezza degli altri, bisognerebbe domandarsi: mentre addestro, sono consapevole di me? Ma questa, è un'altra storia.